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I due Marò: tutto quello che non vi hanno detto

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Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, la vicenda dei due marò ha raggiunto livelli d’isteria difficilmente eguagliabili. Il 26 marzo il Ministro degli Esteri Giulio Terzi si è dimesso in Parlamento dopo una seduta tragicomica. Lo stesso giorno, inoltre, il sindaco leghista di Diano Marina (Imperia), Giacomo Chiappori, ha formulato su Facebook una brillante proposta per risolvere la crisi diplomatica:

Attenti indiani che potete dire quello che volete ma se darete la pena di morte o anche l’ergastolo ai nostri Marò, avrete da vedervela non con il governo italiota ma con gli italiani e saranno tutti cazzi vostri. Ogni minuto un indiano in mare

Il 2 aprile è stato il turno di CasaPound. Un manipolo di fascisti del terzo millennio si è ritrovato davanti a Montecitorio per sollecitare il Governo a riprendersi «i nostri soldati», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La ricetta studiata da Simone Di Stefano (candidato sindaco a Roma per CPI) è assolutamente distensiva: c’è bisogno di fare una «piccola guerra» contro l’India, per «l’onore dell’Italia».

Ma come siamo arrivati fino a questo punto?

Matteo Miavaldi, giornalista del sito specializzato in questioni asiatiche China Files, ha provato a rispondere al quesito nel saggio I due Marò. Tutto quello che non vi hanno detto (in uscita il 17 aprile per Alegre) ripercorrendo in maniera analitica «un fatto di cui si sono perse le origini e la radici», completamente stravolto da una «narrazione tossica» che

si muove su quel terreno della “plausibilità”, della “verosimiglianza” che mette insieme pancia e cervello, luoghi comuni e piccole forme di razzismo quasi innate nella popolazione italiana, dando così il la ad una presentazione dei fatti che diventa difficile decostruire lì per lì. (Dalla prefazione di Simone Pieranni.)

Miavaldi parte dall’«incidente» occorso alla petroliera Enrica Lexie al largo delle coste del Kerala, in India meridionale, e al ribaltamento dei ruoli operato da una parte della stampa italiana. I marò, accusati dell’omicidio di due pescatori indiani scambiati per “pirati”, nell’arco di nemmeno una settimana passano da “carnefici” a “vittime”.

L’autore affronta anche quello che a mio avviso è uno dei nodi cruciali della vicenda, sistematicamente relegato in secondo piano dalla stampa italiana: la presenza di militari a bordo di una nave civile. La legge 130/2011 approvata dal governo Berlusconi ha previsto la possibilità di utilizzare i cosiddetti Nuclei Militari di Protezione su «mercantili o passeggeri battente bandiera italiana, chiamati a garantire la sicurezza di equipaggio, carico e passeggeri negli spazi marittimi internazionali a rischio pirateria». La norma lascia entrare nel redditizio settore sia i privati che la Marina Militare.

In realtà, la Marina di fatto opera in regime di monopolio: «l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità». Intervistato da Miavaldi in merito alla vicenda dei due marò, Antonio De Felice (ex militare, esperto di Crisis e Incident Management) aveva avvertito per tempo la Commissione Difesa sui rischi insiti in questa legge: «Un incidente privato, con la presenza di personale militare a bordo, si sarebbe potuto trasformare in una crisi tra governi. Non ci hanno ascoltato».

Ed è esattamente quello che è successo. Il comandante civile dell’Enrica Lexie, decidendo legittimamente di rientrare nel porto di Kochi in ottemperanza agli ordini della Guardia costiera indiana, ha messo l’Italia di fronte a «un corto circuito della catena di comando che, avallato dalla firma del Ministero della Difesa, permette al personale civile di interferire con gli ordini della sfera militare».

Un’altra questione restituita dal libro alla sua complessità riguarda il diritto internazionale, da più di un anno oggetto di malintesi e speculazioni alimentate ad arte. Il 18 gennaio del 2013 la Corte Suprema indiana (pur con ritardo) arriva a un «parziale non-verdetto» sul caso:

Il nocciolo della sentenza ruota attorno all’interpretazione del diritto internazionale che, si scopre in Italia con undici mesi di ritardo, non è “bianco o nero” come raccontato fino a quel momento. Entra così in scena l’elefante nel salotto di tutta la vicenda, il concetto di “zona contigua”.

Secondo il diritto marittimo internazionale, la «zona contigua» è il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. Per i giudici indiani il processo si dovrebbe celebrare perciò davanti a una Corte Federale e non a una Corte del Kerala. Insomma, dopo aver arrestato i due marò, la polizia del Kerala avrebbe dovuto consegnare i militari italiani al Central Bureau of Investigation (l’Fbi indiana). Perché non è stato fatto? Con l’equilibrio giornalistico che contraddistingue l’intero saggio, Miavaldi scrive:

È lecito pensare che il governo del Kerala a metà febbraio 2012 avesse avuto tutto l’interesse a strumentalizzare il caso dei marò italiani a fini politici, presentandosi agli occhi dell’elettorato come un’amministrazione forte e autoritaria che ha a cuore le sorti dei deboli e degli ultimi.

Togliendo la giurisdizione al Kerela, la Corte Suprema indiana trasferisce il giudizio su Latorre e Girone a un «tribunale speciale», che sarà costituito a New Delhi. In Italia, «tribunale speciale» rimanda inevitabilmente alle corti fasciste, e la profonda ignoranza sul sistema legale indiano ha provocato ondate di panico e terrore. Ma le Corti Speciali non hanno nulla a che fare con quelle fasciste:

Ricorrere ad una Corte speciale, in India, quando si affrontano casi particolarmente complessi o di interesse nazionale è pratica abbastanza comune. […] Approntare una Corte speciale in India è una garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali (il Parlamento in primis) è ai minimi storici.

Di tutto questo, però, nel Belpaese non se n’è minimamente parlato. Anzi. La realtà disturbava i manovratori della «narrazione tossica», che fin dal 15 febbraio 2012 hanno gettato la vicenda in un vortice di sciovinismo straccione, travolgendo giornalismo, opinione pubblica e istituzioni.

Ci sono le menzogne urlate da un pugno di giornalisti (soprattutto Libero e Il Giornale); le squallide prigioni indiane in cui sono rinchiusi i «due leoni» che in realtà non sono prigioni, ma guesthouse governative o – per un periodo – addirittura hotel a 5 stelle; politici che offrono un seggio ai due militari (Ignazio La Russa e il suo partito Fratelli d’Italia); improbabili piste cingalesi o greche; il pasticcio indecoroso della Ferrari nel Gran Premio dell’India; falsi ingegneri di CasaPound che s’inventano “perizie tecniche” che finiscono in Parlamento (è l’incredibile caso di Luigi Di Stefano, portato alla luce da una controinchiesta collettiva sul blog dei Wu Ming).

Dissipata la nebbia della disinformazione attorno ai due marò, Miavaldi descrive lucidamente lo scheletro della «narrazione tossica»:

Giornali e giornalisti di destra modellano le informazioni sul caso dei due marò a proprio piacimento [...]; le loro tesi, passando una prima volta attraverso la Rete, animano l’attivismo online di migliaia di – ignari – utenti; la mobilitazione virtuale diventa reale, sfociando in manifestazioni ed eventi di solidarietà subito cavalcati dalla politica e strumentalizzati per attaccare il governo; i giornalisti confermano la loro versione a un presunto tecnico di CasaPound; esce la perizia e gli stessi giornalisti intervistano “lo stimato tecnico super partes”, mostrando come le prove sciorinate nell’analisi tecnica confermino le loro teorie complottiste. Risultato: in due mesi i marò passano da presunti assassini a eroi prigionieri in terra straniera, con tutto ciò che mediaticamente ne è conseguito.

La «narrazione tossica» ha avuto un impatto devastante anche sulla diplomazia italiana, fin dall’inizio sbeffeggiata in patria e osteggiata in tutti i modi in India.

L’azione diplomatica – coordinata da Staffan De Mistura, l’unico che esce bene dal libro – ha usato tutti i trucchi del mestiere, spaziando tra gli uffici della politica e le sagrestie, «in cerca di una leva compassionevole che potesse convincere le famiglie dei due pescatori, entrambe cattoliche, […] della buona volontà del governo italiano». Non sono mancati i soldi, ovviamente: il 24 aprile 2012 il governo italiano ha versato 10 milioni di rupie (quasi 300mila euro) alle famiglie delle vittime; e tre giorni dopo, il proprietario del peschereccio St. Antony ha ricevuto 1.7 milioni di rupie (23mila euro). «In un paio di mesi – scrive Miavaldi – con meno di 400mila euro, la Farnesina si è abbattuta come un uragano sul banco dell’accusa, decimando i nemici dell’Italia e facendola pure passare per beneficenza». Niente male.

Tutto ciò non è bastato agli oltranzisti nostrani, alla disperata ricerca di adrenalina e di «una missione eroica per liberare i due leoni che languono nelle carceri indiane», soluzione fantapolitica caldeggiata da Gianandrea Gaiani su Libero (per farsi due risate: «Ecco il blitz per liberare i marò: sommergibile, spie e incursori») e rilanciata in piazza da CasaPound qualche giorno fa.

Il disastro italiano ha raggiunto l’apice l’11 marzo 2013. Dopo mesi di estenuanti trattative, la Farnesina dirama un comunicato in cui annuncia che i due marò, in licenza temporanea per le elezioni, non torneranno in India. La sfiducia del governo italiano nei confronti del sistema giudiziario è totale; il tradimento del solenne impegno diplomatico bruciante. La reazione indiana è rabbiosa: la Corte Suprema ordina all’ambasciatore italiano Daniele Mancini di non lasciare il paese e arriva ad un passo dalla violazione della Convenzione di Vienna del 1961.

La scellerata decisione del governo dimissionario ha conseguenze drammatiche. Con una singola mossa, scrive Miavaldi, l’Italia ha perso:

l’onorabilità della nostra parola, la dignità del nostro Paese e – più concretamente – la possibilità di fare affari con un gigante da quasi 1,3 miliardi di abitanti. Tre prerogative che, una volta perse, lasceranno una voragine difficilmente ripianabile nei tempi strettissimi ai quali l’Italia della crisi è costretta.

Mentre alla Farnesina si consuma una «notte dei lunghi coltelli» che farà rotolare la testa di Giulio Terzi, il 21 marzo i due marò vengono rispediti in fretta e furia in India. L’Italia china il capo, si rifugia in un angolo ed è costretta a leccarsi le ferite (perlopiù auto-inferte); l’India, di contro, può festeggiare un grande successo politico e diplomatico:

In India la notizia del rientro dei due fucilieri è accolta come una grande vittoria della linea dell’intransigenza dettata dalla Corte suprema e seguita a ruota dal governo centrale: un successo politico dell’Indian National Congress (Inc), che peserà molto sugli esiti delle prossime elezioni nazionali, previste per il 2014. Anche il Barathiya Janata Party (Bjp), principale partito d’opposizione che aveva mosso durissime accuse di incapacità all’esecutivo indiano, è stato costretto a rimangiarsi tutto.

La vicenda probabilmente andrà avanti per anni. E nonostante si tratti di uno dei più cocenti fallimenti diplomatici nella storia della Repubblica, è ragionevole pensare che il caso dei due marò continuerà a essere strumentalizzato oltre ogni limite della decenza.

A noi resta il compito di rimanere svegli e – grazie al lavoro di giornalisti come Matteo Miavaldi – scansare le «narrazioni tossiche» che vengono propinate quotidianamente.


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